Irlanda

il Connemara di Patrizia

Cielo, acqua, terra: le torbiere


         

     Quante volte capita d’innamorarsi di qualcuno o qualcosa che agli occhi degli altri è privo di attrattiva? Quante volte troviamo significative cose che per molti non valgono gran che? D’altronde, si dice, sui gusti non si discute. Be’ comunque capita, io mi sono innamorata del Connemara, delle sue torbiere.

        Avete presente cos’è una torbiera? Non tutti forse, non è comune da noi, è un ambiente tipico delle regioni fredde caratterizzato da freddo e umido. In Irlanda la zona del Connemara è aspra e selvaggia e dove non ci sono rocce e laghetti sottili che diventano inaspettatamente profondi per il loro terso riflettere ci son le torbiere.
        La maggior parte delle torbiere nel Connemara non è rivestita né di alberi, né di vegetazione, nè di arbusti a macchia, ma è una serie di colline e vallate di terreni umidi, quasi acquitrinosi, con su erba più o meno alta, quasi tutta giallognola e, dove si vede il terreno, esso appare nero e zuppo. Le solite, terribili, strette stradine irlandesi che si snodavano attraverso questo paesaggio desolato. Una desolazione marcata dai pochi centri abitati o meglio gruppi di case, prive degli allegri giardini che di solito incontravamo, alcune erano costruite come leggermente rialzate, forse per evitare il contatto con il terreno così umido con vicino immancabili, enormi cataste di legna.
        Ogni tanto un gregge di pecore, ogni tanto un ruscelletto (o rigagnolo? ) che non riusciva a vincere quella piatta continuità e che peraltro si individuava solo da lontano o da molto vicino, perché scorreva come in una crepa del terreno, non c’erano sassi a delineare il suo letto, sembrava che l’acqua neanche gorgogliasse.
        Un paesaggio desolato certo, ma di grande potenza. Un fascino selvaggio e duro come una sferzata. Ed io che ripetevo: “le torbiere, le torbiere, guardate le torbiere!”. Guardate le torbiere? E che altro c’era da guardare?
Un paesaggio assoluto: una superficie quasi uguale e il cielo. Come un deserto, cielo e terra a confronto diretto, sconfinati, eterni e tu in mezzo, piccolo, infreddolito, ammutolito.
Il vento, senza ostacoli, muoveva l’erba, onde d’erba che si susseguivano ad incantare gli occhi di questa monotonia nuova e il cielo terso, pulito, altissimo lassù, oppure gonfio di pioggia, grigio e basso, quasi claustrofobico che gravava su quel paesaggio tutto uguale senza scampo, che sembrava volersi unire alla terra quando questa fumava per l’umidità e una bruma lievissima s’alzava dal suolo. E l’idea che il sole non ci fosse mai, o che non bastasse, non riuscisse a scaldare quelle terre, ad asciugarle, quasi a guarirle da questa loro solitudine eterna.
        Era una sensazione avvincente, quasi ipnotica e non riuscivo a staccarne gli occhi. Mi sembrava che se uno si fosse messo seduto in mezzo a quella desolazione si sarebbe perso in quello spazio infinitamente uguale. A contatto diretto con quelle due verità assolute, la terra e il cielo, si sarebbe sentito davvero nudo con se stesso, senza più veli, senza più mistificazioni, senza più barare con gli alibi.
       E finalmente dopo le amare rivelazioni della sua vera anima si sarebbe ritrovato. Dopo aver cercato veramente avrebbe trovato, trovato il coraggio di continuare pur sapendosi così com’è. Perdersi è condizione indispensabile per ritrovarsi, il nostro momento più vero è la solitudine.
 

 

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