CAVALLARO'S ROAD - Australia 3 mesi x 20.000 km

16. S. KILDA

Il giorno seguente, Melbourne si spalancava dinanzi al muso della Snoopy Mobile con un intreccio di strade, sottopassaggi, cavalcavia, grattacieli e parchi senza fine, rivelando però un look tipicamente europeo. Dopotutto, Melbourne fu la prima grande città del Downunder. Sviluppatasi già dagli inizi del novecento, traspirava quindi tutta l’influenza che il vecchio continente aveva esercitato su di lei in quest’ultimo secolo (più o meno) e a differenza della splendida e giovane Sydney, questa sembrava proprio la sorella maggiore; più culturale, più riflessiva e più caotica, più città, insomma.
Magicamente, il caso volle che vi approdassimo proprio nella settimana in cui si svolgeva il Gran premio di Formula 1 e questa coincidenza portava ad un unico e straordinario risultato: la città pullulava di gente da ogni parte del mondo. Avvenimenti di qualsiasi genere (concerti, mostre, esposizioni di automobili…) spuntavano ovunque: dalle piazze affollate agli incroci principali (…e non vi dico le fighe!), alla stazione del treno o nei grandi magazzini. E allo stesso modo, quindi, anche gli alberghi, ostelli, Backpackers o Bed and Breakfast erano al completo.
Passammo così il pomeriggio a perlustrare Melbourne in cerca di una stanza da affittare ma… niente… Melbourne, quella settimana, era come Betlemme la notte del 25 Dicembre anno zero e noi non eravamo di certo i tre Re Magi…
Così, a marce basse e con gli sguardi incollati ai bordi delle strade, arrivammo a S. Kilda, a ridosso della baia, dove sorgeva il parco che ospitava il circuito di F1. [] Inutile dire che il quartiere esplodesse di turisti in attesa di seguire il GP mentre le giornate favolose sfoggiavano un cielo limpido e un vento tanto fresco che rendeva l’aria finalmente respirabile e frizzante. Parcheggiammo l’auto in una traversa della via principale, in un parcheggio pubblico defilato. Era quasi ora di cena quando Mario si fermò davanti ad un lurido chioschetto con un sorriso a trentadue denti: eravamo dinanzi al kebab shop che aveva elogiato per tutta la durata del viaggio dai tempi di Byron Bay. In effetti, una volta gustata la pietanza, Mario non aveva poi tutti i torti anche perché il padrone del locale era un tipo abbastanza generoso sia per quel che riguardava il prezzo che la quantità di carne che era solito caricare all’interno dell’involtino.

Sono sempre più stanco e non vedo l’ora di finire, di battere le ultime lettere per dirmi: “Bravo, anche se ci è voluto un po’, alla fine, alla fine hai scritto un buon diario di viaggio…”, ma poi mi rendo conto che c’è ancora qualcosa da dire, qualche situazione che salta in testa, come un grillo chiacchierone e così riprendo mestamente il tamtam solito sulla tastiera del pc.

Eravamo dunque lì, sui marciapiedi di S. Kilda a mangiarci il nostro kebab mentre pensavamo alla sera vicina senza nemmeno un posto dove dormire… e già sapevamo come sarebbe andata a finire. La macchina l’avevamo parcheggiata in un posto fintamente tranquillo e così la sfruttammo ancora come rifugio per la notte. Ma Melbourne, in quel periodo dell’anno, volgeva all’autunno e le tenebre, assieme alla luce, si portavano via anche una buona dose di caldo che, giorno dopo giorno, sbiadiva inesorabilmente.
La sveglia mattutina era dettata più dal dolore fisico causato da posizioni impossibili che dal rumore delle auto e dei furgoni che popolavano quella zona. Lentamente, nell’arco di tre o quattro giorni appena, avevamo assunto la fisionomia di veri e propri barboni. Dimagriti di almeno cinque chili, il nostro abbigliamento era lo stesso da una settimana o più e ci nutrivamo ad una media di una volta al giorno non perché avessimo problemi speciali, è solo che eravamo giunti alla fine delle nostre spinte emotive, stavamo per finire tutti i soldi, avevamo i muscoli a pezzi e, sinceramente, non vedevamo l’ora di cambiare le carte in tavola, dare una mossa all’acqua stagna dei nostri pensieri, vedere qualche faccia nuova, fare qualcosa di diverso che ci tirasse su il morale perché da soli non eravamo più in grado di fare niente.
Quello stesso giorno, ricevemmo una mail dal CAVALLARO che ci dava appuntamento in un pub.
Allora la storia continuava e, in un certo senso, riprendeva proprio da dove, tre mesi prima, era cominciata.
Ricordavo bene la faccia di Simo appoggiato al bancone del bar Gladesh; la stessa faccia che, entrando in quel pub, rividi vicino al bancone con una Fosters in mano e la gioia nell’abbracciarlo di nuovo fu estrema. Non ci aveva salvato dal deserto, certo, non è questo che voglio dire. E’ più una questione di testa.
Il CAVALLARO non era solo, era venuto giù col Books: personaggio altrettanto fantastico, ragazzo di campagna, capelli lunghi e mossi, viso sbarbato, erre moscia e magro come una canna di bambù. Era la prima volta che affrontava un viaggio simile, non sapeva mezza parola d’inglese ed ogni cosa ai suoi occhi suonava come un’epifania e vederli assieme assomigliava un po’ come tuffarsi immediatamente in una pellicola di Toto’.
E il CAVALLARO: “Oh, ma come cazzo siete messi? Ma vi fate le pere? No, No… non avete capito un cazzo!!! Oh, ma mica siete ancora nel deserto!!! Mica potete andare in giro così qua. Dov’è che abitate?” “…da nessuna parte, cioè, siamo arrivati due giorni fa e siccome siamo a S. Kilda ed è tutto esaurito per il Gran Premio, stiamo dormendo in macchina…” “IN MACCHINA!!! Ma voi siete fuori… Books, questi non hanno capito un cazzo. Voi stasera venite a dormire da noi.”
Benissimo, il CAVALLARO e Books erano ospiti del governatore del Victoria che li aveva invitati per la settimana delle corse a seguito di un progetto che Simone stesso stava cercando di portare a termine proprio a Melbourne. L’appartamento era a dir poco favoloso; situato in una zona tranquilla della città, a pochi metri dalla stazione del treno e con tutte le comodità immaginabili come piscina, sauna, ogni tipo di elettrodomestico, palestra, etc. Praticamente una manna dal cielo…
Bene, la situazione era svoltata completamente, eravamo in un capitolo nuovo del viaggio, molto più comodi di prima e in cinque.
Le giornate trascorrevano all’insegna del CAVALLARO che decideva praticamente tutto: tempi e luoghi da visitare, cosa mangiare e quando, come guidare e quando parcheggiare. Il motivo? Doveva portare a termine alcune cosuccie in sospeso e certi business improbabili che lui stesso aveva pianificato, come la distribuzione di macchinette automatiche per il caffè espresso, la catena di negozi di gelati confezionati, la scuola di enologia e chi più ne ha più ne metta… Mario, a volte, impazziva completamente sotto la sua direzione anche perché non riusciva a capire fino in fondo la sua carica esplosiva e così, ogni tanto, si accendevano delle frizioni che venivano presto smorzate con una risata (più o meno).
In più c’era il Gran Premio da vedere. Noi avevamo già acquistato i biglietti per il prato, Simone e Books no, ma sostenevano che, senza alcun rischio, saremmo riusciti a penetrare fino alla tribuna centrale come niente fosse. La sera stessa, per agevolarci l’ingresso nel circuito, bucammo le reti perimetrali in diversi punti, tutto di soppiatto, come veri e propri veterani dello scasso: Tenaglie e tronchesi alla mano, lacerammo i fili esili del recinto che delimitava l’area del circuito così che, il giorno seguente, avevamo più possibilità di sfuggire ai controlli della sicurezza e far penetrare il Books e Simone. Naturalmente, tutto questo sforzo non serviva assolutamente per poter accedere alla tribuna principale. Per quella situazione si trattava di tirare fuori tutto il nostro estro, che non mancava di certo.

Domenica, Gran Premio. Mario che scalpita come un bambino già dalla sera prima, fissato per i motori e per la Ferrari in particolare. Il suo idolo era quello scucchione di Schumacher e la Ferrari, in quella stagione, doveva recuperare tutta la credibilità persa nei precedenti mondiali. [] La giornata non era delle migliori, le nuvole andavano e venivano e quando venivano minacciavano forti piogge.
Noi entrammo, entrammo tutti grazie ai buchi fatti il giorno precedente, entrammo in cinque, con due striscioni e tre biglietti in mano e mentre vagavamo per il circuito già pensavamo a come poter accedere al paddock. Ad un certo punto notammo che la rete che separava la tribuna ‘vip’ dal resto del mondo comune costeggiava proprio due cabine dei servizi pubblici, montate vicino a due grandi alberi fronzuti. Molto cautamente ci infilammo fra le due casette e riuscimmo ad oltrepassare la recinzione senza che nessuno, fra sicurezza, controlli o polizia, potesse accorgersene.
Ci mischiammo fra la folla repentinamente anche se eravamo ben riconoscibili: uno dei due striscioni arrivava direttamente da Pesaro e raffigurava il simbolo del cavallino con il logo del Fan Club Ferrari mentre l’altro era un capolavoro sgusciato dai tre della Snoopy Mobile. Tutto fatto a mano, era un panno di tre metri su cui avevamo disegnato sempre il cavallino rosso su uno sfondo tricolore e un SIAMO SOLO NO1 sopra e sotto a ricordare a tutti la nostra presenza lì e, allo stesso tempo, la predominanza della casa modenese nel mondo dei motori… Con due catafalchi del genere era abbastanza facile dare nell’occhio ma nessuno, stranamente (ma poi mica tanto), ci faceva caso e così, piano piano, noi ci avvicinavamo alla tribuna centrale, sì, quella lì, quella a dieci metri dai paddock e a due dalla pole position, quella che un biglietto per un giorno costa appena mille e cinquecento dollari (e noi cinque ne avevamo tre per tutto il week-end da ottanta dollari)!!!
Ma era bene attendere ancora un poco, la tribuna era iper-perlustrata ed entrare era un’utopia, soprattutto ad un’ora dalla partenza. Ma il tempo volava (adeguatosi alla situazione) e già buona parte della gente aveva occupato i propri posti nei rispettivi settori e la folla cominciava a diradarsi. Nel giro di cinque minuti bisognava agire, e alla svelta. Eravamo appoggiati alla rete che delimitava il rettilineo dello start e alla nostra sinistra si ergeva proprio la ‘nostra’ tribuna. Allora Simo, con gli occhi e le orecchie fuori dalla testa comincia a strattonare il telone nero che funge da abbellimento sullo scheletro ferroso dell’impalcatura laterale della tribuna stessa, ad ogni rombo di motore, così da nascondere il rumore dello strappo e allargare quindi il buco. Prima, seconda, terza sgasata di una macchina, mi giro e non vedo più il CAVALLARO, che è già in tribuna… e allora, con fredda calma, a seguire tutto il resto del gruppo finché non rimane che il telone nero, lacerato e sventolante. Guardarsi un Gp di F1 da quella posizione era il massimo che si potesse chiedere da quella giornata, poi il resto… chi se ne fregava. Schumacher vinceva davanti a Barrichello e la folla in delirio elogiava il suo mito sotto il podio mentre all’ospedale, un inserviente addetto alla sicurezza della pista, moriva dopo aver ricevuto in faccia la ruota di uno dei tanti finiti fuori strada nel corso della gara.
Il post-GP fu un delirio crescente di birre in un fantastico pub di S.Kilda che si specchiava sulla baia, con le vetrate sul fronte e un giardinetto con poltrone sul retro mentre dentro si preparava uno dei tanti concerti live della stagione (Grand Silent System ad esempio)…
Quel Gran Premio fu l’ultimo grande sogno di quel grande giro per l’Australia? Forse, forse sì, credo. Con il CAVALLARO e Books, durante quella settimana a Melbourne, ne successero di tutti i colori; come quando entrammo nelle grazie di una specie di ‘Padrino’ al quartiere italiano, o quando conoscemmo un bravissimo ragazzo con grandi progetti futuri che, frocio, si era invaghito di Mario e se lo voleva segare o, per ultimo, quando proprio quella sera, ubriachissimi, tornammo a casa a piedi attraversando tutta la città nella notte.

Io e Giovi avevamo già acquistato i biglietti per il treno che ci avrebbe ricondotto a Sydney per il volo di ritorno, previsto dopo due giorni. Mario aveva già programmato di tornare indietro, da solo, verso Mintabie e lì fermarsi per un po’ di tempo per lavorare come meccanico ma, visto che anche il CAVALLARO e Books puntavano per la stessa direzione, allora si offrì di accompagnarli almeno fino ad un certo punto. Il giorno seguente, dopo aver raccattato tutto dall’appartamento, ci salutammo mestamente con una serie di birre gelate nel pub della baia di S. Kilda.
Ricordo come ora quel frangente poiché fu palesemente cabalistico. Senza volerlo, Books rotolo sul cofano della macchina (parcheggiata a lato della strada) in maniera ironica e scherzosa, ma nel farlo spezzò inconsapevolmente il busto di Snoopy dalla carrozzeria del veicolo e io vidi quel momento come un’ulteriore conferma della fine di quella (questa) storia. Sull’Auto stavano infatti salendo due passeggeri che nulla avevano a che fare con l’equipaggio precedente e il caso volle proprio che in quel momento, e non in un altro, si rompesse la statuetta del cagnolino che aveva sciato con noi per quasi ventimila chilometri ininterrottamente.
Il ritorno verso casa fu un lungo silenzio, spezzato da sporadici avvenimenti di mezzo e una signora che, dopo aver sentito qualche aneddoto della nostra avventura ci disse: “Ma perché non ne scrivete un libro?”
Eccolo.

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