CAVALLARO'S ROAD - Australia 3 mesi x 20.000 km

15. GREAT OCEAN ROAD

A metà strada decidemmo di fermarci. Ci catturò infatti la semplicità di un villaggio perso fra le pieghe umide della costa, sferzato dal soffio gelido dei venti del polo sud che accarezzavano tremendamente una baia inquieta e infreddolita.
Le onde si spezzavano come lastroni di ghiaccio contro pareti spinose e buie, a perpendicolo sull’oceano e il tonfo sordo dello scontro fra le nature diverse era la melodia prima di quel luogo. Sinceramente non saprei dire quando ne come ci arrivammo. Ricordo che, ad un certo punto, era troppo tardi per ripartire. Rimettersi in viaggio di notte non era la scelta più saggia: il pericolo dei canguri ce lo eravamo lasciati finalmente alle spalle e la temperatura, di giorno, era ora molto più gradevole. Guidare sotto la luce del sole ci dava inoltre la possibilità di gustare ogni minima variazione del paesaggio che mutava repentinamente davanti ai nostri occhi. Così, quella sera, restammo a dormire là, parcheggiati di fronte all’entrata di un bar in attesa di un nuovo giorno. La nottata fu tremenda. Il freddo e l’umidità che salivano dalla baia avevano ricoperto la Snoopy Mobile di uno strato di condensa che ci era ancora sconosciuto. Le gocce rigavano i finestrini scandendo caoticamente il ciclo delle tenebre mentre all’interno i nostri corpi rispondevano a nevrotici scatti per scrollare di dosso quella fastidiosa sensazione di gelo. Non ci fu alba più desiderata di quella. Appena fuori dalle lamiere dell’auto ci riparammo dietro le vetrate del bar per scaldarci con una tazza di caffè mentre la vita riprendeva con stanchezza e routine.
Poi di nuovo in strada, mentre un sole impallidito faceva capolino dai promontori rocciosi. Adelaide era definitivamente alle spalle, e nemmeno mezza foto che la ricordasse, e non capisco ancora perché. Ad ogni modo guidavamo, avanti e la radio era tutta contenta di poter finalmente canticchiare qualche melodia nuova grazie al Sgt. Pepper Lonely Hearts Club Band (Beatles) e al Born in the U.S.A. di Springsteen. A babordo la Great Ocean Road: un tratto di strada spettacolare, una serpe d’asfalto che ricalcava fedelmente i margini sinuosi di una costa nervosa, un lembo di pizzo e merletti saggiamente ricamati dall’impeto costante delle maree. Le onde salivano in spuma bianca come abili scalatori sulle pareti sgretolate spruzzando di salsedine l’aria. La costa martoriata si lasciava flagellare a ripetizione, quasi fosse un rito liberatorio, lo sfogo finale dell’ira del mare che sputava fuori la sua voce e plasmava con cadenze millenarie gli ostacoli che incontrava. E infatti il paesaggio somigliava molto ad un campo da guerra. Avanzavamo quindi molto cautamente anche perché ogni luogo era uno spettacolo naturale: voragini insospettabili si aprivano sotto i nostri sguardi stupidi. L’oceano era penetrato ovunque, si era scavato tunnel e cunicoli lunghissimi che solo raramente tornavano alla luce. Tutta ‘colpa’ del terreno, quel mix di roccia e materiali friabili gli avevano permesso di costruire corridoi sotterranei che resistevano al tempo e alla fisica. Il terreno più morbido se l’era divorato con gli anni, onda su onda, aveva spazzolato tutto lasciando invece intatte e nude colonne di pietra che ancora combattevano, giorno e notte, contro simili flutti. A gradi, lo scenario assumeva uno stile ancora originale, sublime, accompagnandoci all’apoteosi di quell’opera naturale. Dopo mezz’ora di cammino, infatti, raggiungemmo la baia dei dodici apostoli; dodici fantasmi di roccia abbandonati dal resto della terra ferma. Erosi dal vento, dal sale e dalle onde stavano lì, soli, come anime in attesa di un corpo, sagome infreddolite a combattere una battaglia persa, tanto l’oceano avrebbe vinto, lo sapevano pure loro.[] Dodici faraglioni in fila indiana, a dieci metri dalla costa, a ricordare che la costa, dieci metri fa, era lì dove loro si trovavano, a ricordare che le cose cambiano anche se non sembra, è solo una questione di tempo, e perseveranza.[]
Parcheggiammo la macchina e a piedi raggiungemmo il precipizio. Il vento, direttamente dal polo sud, ci sussurrava una stagione nuova, fulminea, e la felpa di cotone che avevamo addosso non serviva a ripararci minimamente dalle sue provocazioni, così passammo al vino rosso…
Bevevamo a grandi sorsi mentre il sole cadeva dietro gli abissi sputando sfumature arancio contro la muraglia e i suoi guardiani spigolosi. Non ci sono mai commenti per situazioni del genere, ognuno si era già perso nelle sue divagazioni mentre il contrasto fra lo scuro della terra e la luce riflessa contro le pareti verticali amplificava la bellezza del posto. Il sole scomparì all’orizzonte nello stesso momento in cui il cartone del vino si liberò anche dell’ultima goccia. Faceva abbastanza freddo, ora, e così tornammo in auto per ripararci un po’ e rimetterci in viaggio. Ogni sosta era un rito da consumare al 100% delle sensazioni in tempi relativamente brevi; dopotutto non eravamo noi a dettarne i ritmi ma la natura stessa che dava e toglieva a suo piacimento.
La via per Melbourne si accorciava ogni ora di più e in maniera inversamente proporzionale, invece, aumentava la nostra frenesia nel pensare di raggiungere in un momento solo due emozioni fortissime: Melbourne appunto e, logicamente, l’arrivo del Cavallaro. Da quando lasciammo la Barossa, in auto non si parlava d’altro. Io e Giovi eravamo in completo delirio mentre Mario ci faceva mille domande al minuto per cercare di capire che tipo fosse il nostro amico… Ciò che ho scritto all’inizio del libro furono esattamente le stesse parole che dicemmo a Mario sul conto del CAVALLARO, ovvero niente di preciso, sensazioni.

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