CAVALLARO'S ROAD - Australia 3 mesi x 20.000 km

13. SPEED!

Grande calma, apparente, ma grande calma. E ognuno che pensava ai cazzi propri, come se non fosse successo nulla, come se quella sosta potesse essere considerata alla pari di tutte le altre. Ogni tanto dalla bocca di qualcuno usciva un commento, più o meno malinconico su Mintabie, per aggrapparsi, almeno con la memoria, a quei tre giorni appena trascorsi.
La nostra rossa si faceva spazio lungo la via che ci avrebbe rimesso sulla Stuart Highway per proseguire il cammino che ci eravamo prefissati, ancora verso sud. Dove, di preciso: bò, ma di sicuro verso sud. L’atmosfera, dentro l’abitacolo, non era di quelle migliori perché, in fondo, si avvertiva un senso di disagio, un malessere inspiegato ed irrisolto che aleggiava nelle nostre teste rimbalzando poi da sedile a sedile. Come dire, non so, era una sorta di sklero che ci portavamo dietro da tempo; un po’ dovuto allo stress del viaggio, un po’ perché erano già due mesi (o poco più) che vivevamo a stretto contatto sempre, ma soprattutto perché la decisione di andarsene da Mintabie era stata presa d’istinto, come era stato fatto in ogni altra precedente situazione. Solo che quella volta c’erano di mezzo i sentimenti e qualcuno, lì a Mintabie, ci aveva lasciato un po’ di se stesso come mai prima era accaduto.
Ad ogni modo, anche se più lentamente rispetto alla solita tabella di marcia, la Snoopy svaniva a sud sul solito asfalto bollente della strada scaricando dai finestrini le note di qualche canzone che la radio proponeva. Mintabie ci aveva regalato tanti ricordi, molti dei quali erano irrimediabilmente legati ai brani che, la sera, ascoltavamo a casa di Alan fra un sorso di birra e qualche sigaretta. Fra i dischi più ascoltati c’erano John Lennon e Macy Gray, che quell’anno lanciava il suo primo album: “On how life is”.
Ebbene, la musica di Macy Gray ci accompagnò per tutto il tempo avvenire da quando, alla prima sosta di carburante, comprammo la sua cassetta. Ciò non bastò comunque a sciogliere il gelo che si era stratificato in noi. Mario era sempre pronto a lanciare il sasso, a tentare di fare scattare un’improbabile molla: il ritorno repentino verso Mintabie, la sua gente, la sua solitudine. Mario, a dire il vero, ci sarebbe rimasto a vita, fosse stato per lui, anche perché aveva fiutato la possibilità di stabilirsi lì come meccanico nell’officina dimessa di Max riparando le auto e i trattori degli abitanti di quella minuscola cittadina. La sua idea non faceva una piega e lui aveva tutte le ragioni per spingere affinché si facesse inversione per tornare gloriosamente sui propri passi.
Io, invece, ero del parere opposto per mille ragioni e per nessuna in particolare. Ciò che mi spingeva a rifiutare la proposta di Mario era semplicemente il fatto che, fino a quel momento, avevamo sempre continuato per la nostra strada, senza mai voltarci indietro a rimuginare sui se o sui ma. Certamente molteplici erano le cause per cui io preferivo andare avanti e Mario no e non starò nemmeno qui ad elencarle; non me le ricordo di certo, o forse si, ma non è questo il punto: il punto è che ognuno di noi, dentro se stesso, sapeva di avere ragione sull’altro e nessuno voleva ascoltare. In mezzo a tutto ciò Giovi fungeva da bandiera e in base alle motivazioni che l’uno o l’altro ribadivano, lui assecondava perché, in effetti, era impossibile dare ragione o torto ad uno piuttosto che all’altro.
Il paesaggio circostante, nel frattempo, smorzava gloriosamente qualsiasi accenno di nervosismo e così, non appena ci si rendeva conto di esagerare con le parole, le conversazioni morivano in una bolla di sapone per poi rinascere dal nulla venti km più avanti. Intanto avevamo già percorso una bella striscia di strada e gli unici rumori che si potevano udire erano quelli emessi dalla radio quando Giovi sfilò dalle tasche una bustina di plastica ben accartocciata.
Quei tre grammi di speed (mix anfetaminico di colore beige) li avevamo ereditati da Alan che ce li aveva raccomandati calorosamente nel caso in cui avessimo voluto provare a raggiungere la costa sud nell’arco di una notte: settecento km.
Il sole era già adagiato sulla linea dell’orizzonte quando a turno sperimentammo quello che ogni bravo camionista di Road Trains fa ogni volta che si mette alla guida del suo bisonte per attraversare in ventiquattr’ore tutto il deserto (Adelaide-Darwin)… E in fondo anche noi, a modo nostro, in quei momenti eravamo mitici camionisti con alle spalle sette rimorchi di ricordi ed esperienze strampalate che non riuscivamo nemmeno a metabolizzare. Lo speed fece effetto mezz’ora dopo in una maniera esplosiva e, inizialmente, esilarante.
Le parole sgorgavano senza freni fuori dai denti, ognuno parlava a velocità supersonica senza comunque riuscire a sostenere il ritmo dei propri pensieri che viaggiavano su frequenze troppo diverse e molto più dinamiche. Fisicamente eravamo in un punto della Stuart Highway, seduti sui sedili di un vecchio station wagon rosso a confabulare animatamente. Mentalmente la nostra testa aveva già fatto quattro o cinque volte il giro del mondo, aveva già capito da almeno mezz’ora tutto ciò che sarebbe scaturito dai pensieri degli altri due nella mezz’ora successiva mentre stavamo volando a velocità estreme su un veicolo rosso abilmente trainato da un cane simpatico e silenzioso.
Alle ore sei del mattino seguente eravamo già a Port Augusta, straziati nel corpo e nell’anima da una notte fin troppo nevrotica. Non avevamo fatto altro che gridarci addosso tutto lo stress accumulato fin lì, nascosto dietro l’alibi di una possibile rimpatriata a Mintabie che io rifiutavo a prescindere…
Mi svegliai, come sempre, prima degli altri. Praticamente non dormii affatto visto che alle otto ero già fuori dall’auto, con i piedi a penzoloni sul ciglio del molo ad osservare i gabbiani o qualche barchetta ancorata a largo. Tremavo come una foglia, avevo i nervi a fior di pelle dall’esperienza della serata precedente. Non capivo veramente cosa fosse accaduto a tutti e tre mentre sfrecciavamo nella notte più buia dal deserto alla costa… Avevamo litigato? Avevamo solo straparlato?? Gli altri due ce l’avevano forse con me??? Aveva senso, infine, pensare a certa cose?
Il sole era già bello alto nel solito splendido cielo blu e parlare di nuvole era semplicemente utopistico. Avevo una mela in mano e ogni tanto la addentavo per restituire una parvenza di normalità al mio corpo elettrizzato che reagiva in maniera convulsa ad ogni piccolo movimento. Ma che cazzo era successo in quella traversata allucinata? Bo’, l’unica parola che la mia mente poteva partorire era proprio e solo quella: bo’! Eravamo mentalmente arrivati alla fine di una storia? Avevamo forse concluso un ciclo prodigioso che ci aveva condotto all’esaurimento mentale esasperando il carattere e l’armonia del gruppo, come tre magneti che tentano irrimediabilmente di far aderire fra loro i tre poli positivi?
Port Augusta riapriva gli occhi sotto un sole timido e luminoso. Era domenica e la quiete pervadeva le strade della città mentre anche Giovi e Mario, che nel frattempo erano scesi dall’auto, si guardavano attorno con fare smarrito, quasi ignorando in che modo fossimo approdati sul bordo di quel molo.
La Snoopy riposava stanca e sudicia al centro del parcheggio. Era stata una regina, una vera e propria carrozza magica che aveva attraversato il deserto incandescente senza eccessivi problemi e adesso, spogliata dei suoi padroni, era ancora lì: sportelli aperti e ruote sterzate quasi a chiederci di partire di nuovo.

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