CAVALLARO'S ROAD - Australia 3 mesi x 20.000 km

6. TROPICO PLUVIALE

‘Deep inside in a parallel Universe…’
Quel disco dei Red Hot Chili Peppers non mi è mai piaciuto, un cesto di canzoni orecchiabili che nauseavano già dai primissimi ascolti. Non che fosse robaccia, ma loro avevano fatto molto meglio negli anni precedenti e avrebbero potuto lasciare certe melodie a gruppi più sobri ed insignificanti. Con quell’album si erano sputtanati decretando così l’inizio di una parabola discendente.
Ma la cassetta era in macchina e spesso veniva inserita nel mangianastri sebbene avessimo un repertorio di tutto rispetto fra cui: Skiantos, Clash, Vasco (con il bellissimo e abbronzatissimo Maurizio Solieri…), Pink Floyd, Morcheeba.
Eravamo diretti a nord, più su possibile, anche perché eravamo ormai sfuggiti alla calura insopportabile dell’entroterra e stavamo puntando verso l’area pluviale del continente, tropico del capricorno, umidità elevata, grandi piogge, grandissime piante, trecce di mangrovie e lingue di cascate a ripetizione.[] La strada era cambiata e ogni tanto incontravamo cittadine più o meno popolate ma sempre immerse nel verde. La sensazione che avevo (agli altri non l’ho mai detto) era quella di viaggiare nella campagna irlandese, o scozzese, qualcosa che fosse molto simile ad uno scenario di folletti e gnomi di bosco. Tappeti naturali inumiditi ventiquattro ore su ventiquattro dalle secchiate che lanciava il cielo, nero, grigio, azzurro con un sole immenso e poi di nuovo cumuli nembi: palle di marmo appese sulla testa come una coperta fitta e spessa. Era bello guardarle da dietro il vetro dei finestrini che avanzavano con noi o che ci venivano contro.[]
In quei momenti pensavo a duemila cose contemporaneamente, pensavo a dove eravamo diretti, pensavo al silenzio che a volte imperava nell’auto, a Mario che fumava in continuazione e tante altre cose inafferrabili. La meta certa era Cairns, perché era la maggiore città dello stato del Queensland (ed era tappa obbligata), punta di diamante per ciò che riguardava le escursioni alla barriera corallina oltre ad essere una bella sorsata dissetante dopo un periodo trascorso da soli. Avevamo una certa necessità di rivedere un po’ più di gente assieme, più negozi, più vita, così, per variare un po’, per modulare le situazioni e non annoiarsi magari per ulteriori tempi morti. Sydney, in fondo, era stata l’ultima vera Metropoli in cui avevamo dormito, in tutti i sensi.
Non avevamo più toccato un materasso (tranne quei due giorni a Byron Bay, forse) e ogni volta che calava il sole iniziavamo a pensare in quale luogo e, soprattutto, in che modo avremmo trascorso la notte. Avevamo una tenda minima, calcolata per due, mentre noi ci entravamo in tre, con tutti gli zaini e anche le cose da mangiare. Se invece ci trovavamo ancora per strada o la situazione non era delle migliori per poter piantare abusivamente una tenda, decidevamo di dormire direttamente nella Snoopy Mobile, un po’ rannicchiati, con un occhio chiuso e l’altro aperto perché non si sa mai; e comunque di spazio, li dentro, ce n’era. Uno si stendeva sui sedili anteriori (la zona più scomoda visto gli ingombri del volante e del cambio), uno su quelli posteriori e il terzo nel bagagliaio che, se vogliamo, era forse il posto più ambito a parte qualche spuntone che ogni tanto fuoriusciva dalle borse sottostanti (tipo il cavalletto per la macchina fotografica di Mario) e che si conficcava dritto contro la schiena o in una coscia (…o su per il culo… scherzo!) nel bel mezzo della notte.
Non pagavamo quasi mai i campeggi in cui dormivamo e, veramente, dormivamo molto poco in quei pochi in cui penetravamo abusivamente. La tecnica era banale e consisteva nell’arrivare tardi, molto tardi, quando ormai alla reception non c’era più nessuno. L’Australia funziona un po’ tutta così. Sono tutti, più o meno, figli di deportati (o così è come la considera il mondo) ma questo passato burrascoso sembra non essergli servito a niente. La loro ingenuità fanciullesca nei confronti della vita e una certa considerazione pura e cristallina, immacolata dell’animo umano pervade tutta la loro cultura. Non la nostra. Europei ma italiani in particolar modo, non esistono porte aperte senza un guardiano, pompe di benzina incustodite, supermercati senza controlli; no. Niente di tutto questo nel vecchio continente e forse (anzi sicuramente anche se non l’ho ancora visitato) neanche nel nuovo, ma nel nuovissimo tutto ciò è routine quotidiana e così arrivavamo in campeggio. Alle ventitre o a mezzanotte piantavamo la tenda e all’alba, senza disturbo, caricavamo tutto nuovamente sulla Snoopy Mobile per macinare altre centinaia di chilometri. Ricordo quando una notte, verso le tre o le quattro, o anche prima o dopo, non lo so, di sicuro era tardi ed eravamo completamente esausti dopo ore ed ore al volante, non trovando neanche mezzo camping decidemmo di accostare in una piccola strada non asfaltata che correva parallela ad una ferrovia, in campagna, nei pressi di un pollaio o qualcosa di simile, visto l’odore che c’era. L’aria era calda, appiccicosa, aveva piovuto da dieci minuti e fra altri dieci avrebbe piovuto di nuovo. Ma non si riusciva a dormire, assolutamente, ogni tanto passava un treno, poi un road train, poi pioveva e sembravano sassi sul cofano, sul tetto e bisognava tenere i finestrini chiusi per non fare entrare l’acqua, ma era un caldo soffocante e i sedili si impregnavano di sudore. Basta, ci alzammo più stanchi di prima per cercare un posto che desse miglior sollievo ma, al momento di mettere in moto l’auto, la batteria, utilizzata nel frattempo per ascoltare un po’ di musica di sottofondo, non dava più segno di vita. La mettemmo in moto a spinta, faticosamente e con le ruote completamente infossate in quella che, dopo ore di diluvio, era diventata una vera e propria palude. Sudici e inzuppati dalla testa ai piedi, nell’oscurità di una notte tropicale, guidammo alla ricerca della città più vicina che raggiungemmo dopo mezz’ora o tre quarti. Qui, distrutti dalla stanchezza, utilizzammo quella poca voglia di sbatterci che ci era rimasta, per buttare la tenda in un parco appartato, al riparo sotto alcuni alberi vicino ad un cesso pubblico. Perfetto, un posticino giusto per trascorrere in pace le ultime ore della notte… col cazzo.
In Australia è vietato campeggiare nei luoghi pubblici, nei parchi, per strada (praticamente i nostri preferiti) e infatti, all’alba, fummo bruscamente svegliati dalla guardia del paese che faceva il solito giro di ricognizione a controllare se tutto fosse ok e in quello spiazzo c’era proprio qualcosa che non andava: una tenda piantata.
Con la torcia puntata sul volto e gli occhi gonfi e rossi fummo costretti, di nuovo, a smantellare tutto l’ambaradan, mostrargli i documenti sperando di passarla liscia (non era la prima volta che ci imbattevamo nella polizia e ogni volta era un terno al Lotto sulla probabilità di ricevere multe esorbitanti o addirittura il timbro di espulsione sul passaporto) ancora una volta. L’ultima volta che ci scontrammo con dei poliziotti fu a Byron Bay quando, dopo una serie di pinte di birra, ci sorpresero (o meglio mi sorpresero) a pisciare dietro un cespuglio in spiaggia rischiando (a loro dire) qualche giorno di galera o l’espulsione da lì per cinque anni. Poi nuovamente a Warren quando, appena arrivati, ci sedemmo in un parco mangiando pollo e bevendo due birre all’ombra di un albero.
La mitica e strampalata legge australiana non permette infatti di sorseggiare qualsiasi tipo di alcolico all’esterno di un locale a meno che questo (l’alcolico) non sia ben avvolto in un cartoccio, così da evitare la libera ‘pubblicità’ di questa orrenda piaga sociale. Ma gli australiani sono tutti birra-dipendenti (per non parlare poi del whisky) e a cosa serve, poi, nascondere una sostanza che ritieni pericolosa socialmente dietro un cartoccio, se tutti quanti sanno che dietro quel cartoccio (visto che il resto delle bibite si possono bere liberamente) ci sono solo alcolici? . . . A U S T R A L I A .

Poi polizia anche a Stanthorpe e pure nel viaggio di ritorno verso la costa quando ci fermammo in una fattoria di un contadino a chiedergli se, per caso, aveva del formaggio o latte da venderci e lui, con un sorriso innocente e dopo averci detto che non aveva niente del genere (ma aveva centinaia fra mucche e galline), pensò bene di avvertire una pattuglia di sbirri che ci seguirono fino a che non fummo scivolati oltre la linea dell’orizzonte. Si, da questo punto di vista, alcuni uomini del bush, sono poco affabili.
Ed ora che eravamo al cospetto dell’ennesimo poliziotto non potevamo fare altro che recitare il solito, stupido ma efficace copione fatto di scuse, facce stupefatte ed ignare delle leggi del posto. Più o meno questo era il film, che, generalmente, ci salvava dalla multa.
Ripartimmo, sempre più stanchi e fradici, verso il nulla, alla ricerca di niente, con le gambe più stanche degli occhi e gli occhi stanchi come l’umidità che c’era attorno mentre tutto attorno iniziava già ad albeggiare. Dopo qualche tempo in macchina arrivammo ad un camping veramente lussuoso e, soprattutto, disabitato. Era pieno di ogni comfort e nella penombra si intravedevano tende, bungalows, roulottes, una piscina spettacolare e un prato quasi finto di erbetta verde ed umida. Sotto un cielo limpido, da poco svuotatosi dell’acqua che aveva scaricato su di noi tutta la notte, il gracchiare delle rane era una melodia incessante alternata al battito d’ali di pipistrelli almeno quattro volte più grandi di quelli che di solito ruotano attorno alla luce dei lampioni delle nostre città. Sembravano gabbiani in pelle nera lucida, draghi di altri tempi sopravvissuti alle variazioni climatiche nel corso dei secoli… ma erano solo pipistrelli con un’apertura alare di un metro e mezzo… forse.
Riuscimmo a dormire quelle tre ore necessarie per riprendere le forze e non pagare il campeggio. Eravamo sempre in fuga e non avevamo nessuna meta: Viaggio perfetto. Ogni tanto a Mario saltava in mente di riprovare l’esperienza lavorativa; quelle erano ancora zone piene di campi adibiti alla coltivazione di frutta o ortaggi ma non ci credeva più di tanto neanche lui; Warren ci aveva marchiati a fuoco al punto giusto da soppesare nel migliore dei modi scelte simili. Non facevamo altro che macinare chilometri su chilometri, rubando di tanto in tanto un pollo, due cassette per la radio, la permanenza in un campeggio, un pieno di benzina non perché fossimo ladri o cosa, faceva semplicemente tutto parte di un girovagare senza senso, avevamo dimenticato ogni buona, sana regola che si possa imparare in famiglia.
Ad un certo punto oltrepassammo il Tropico del Capricorno, e fissammo quel momento con una bellissima foto, quasi fossimo dei pionieri ad aver valicato un ostacolo mitico o cacciatori nella savana sulla carcassa di un leone maschio.
Da lì in poi non fu altro che pioggia e ripide cascate, siringhe di acqua potente che scrosciavano nelle spaccature delle montagne mentre Elvis, o qualche altro cantante, invadeva con la sua voce lo spazio all’interno della Snoopy Mobile.
Arrampicavamo dappertutto, bastava un minimo dettaglio, un paletto storto sul ciglio della strada, una casa abbandonata in lontananza, un pascolo di mucche più avanti per cambiare itinerario, alla ricerca di qualche cosa di fantastico, ancora intatto, qualcosa che non fosse per forza segnato sulla cartina o raccomandato da chissà chi. Durante la calda ed estenuante esperienza fra i campi di Stanthorpe e Warren avevamo addirittura azzardato l’impossibile con la nostra leggendaria rossa spingendola dritta dritta fra gli arbusti e il terreno improbabile del bush per dare la caccia a un branco di canguri. Poteva essere stata la parodia di qualche triste e cruda battuta di caccia nella savana africana con la piccola differenza che al posto di fucili e pistole noi puntavamo contro gli animali solo teleobiettivi.
E la stessa cosa si ripeté in quella occasione quando, proseguendo per la statale che ci avrebbe condotti a Cairns, ai lati della strada spuntavano come funghi indicazioni su indicazioni di cascate, laghetti, torrenti nascosti da qualche parte là, nel mezzo, sotto. A caso imboccammo una stradina sterrata rettilinea e piena zeppa di buche e pozzanghere, larga appena per contenere i pneumatici delle ruote del mezzo. E ogni tanto essa stessa si diramava in altrettanti sentieri che portavano all’infinito e scomparivano nel verde del verde tropicale.
In quella stradina avvenne qualcosa di magico, qualcosa che aveva a che fare con l’intuito, e che avrebbe rafforzato una volta di più la consapevolezza che, in un certo senso, avevamo degli appuntamenti previsti lungo il nostro girovagare casuale e senza senso.
Generalmente, durante il viaggio, le cose da osservare, capire e analizzare erano infinite e così spesso capitava che non ci si soffermava più di tanto a godere dello splendore di un paesaggio o di un’iguana in mezzo alla strada perché già pochi metri dopo c’era qualcos’altro di altrettanto stupefacente a richiamare l’attenzione. Proprio per questo, poi, i ricordi diventano spesso pure e singole sensazioni e non istantanee dettagliate e specifiche di ogni singolo momento del viaggio. E così accadde in quella stradina; io sedevo sul sedile davanti e pensavo un po’ ai cazzi miei ottimamente miscelati con il cielo plumbeo e l’aria pesantemente umida del pomeriggio tropicale, Mario, inchiodato al volante, si fumava il solito cigarro e, con il berretto da muratore arancione (che non si era mai tolto) infilato come un calzino sulla testa, guidava lento e attento cercando di evitare il maggior numero di buche possibili. E nel frattempo si guardava un po’ a destra e un po’ a sinistra.
Giovanni era dietro, forse steso lungo tutto il sedile posteriore, e non so a cosa pensasse quando i suoi occhi incrociarono uno dei cartelli che davano il nome a quelle minuscole stradine laterali che andavano a morire nel nulla: CAVALLARO’S ROAD.
Non ci potevamo credere, anche perché niente aveva un senso ma tutto, secondo noi (e a questo punto parlo solo di me e Giovanni perché Mario non poteva capire) tornava alla perfezione. Era una stupidaggine, sì, era una coincidenza, sì, era un caso, sì, ma era vero. Era vero che neanche tre mesi prima avevamo quasi deciso per due biglietti con destinazione Venezuela; poi un amico ci consiglia l’Australia. Noi proviamo, e nel mezzo dell’avventura (perché arrivati a quel punto eravamo proprio nel mezzo dell’avventura in tutti i sensi) ci imbattiamo casualmente in una stradina impossibile da individuare che porta il suo nome.
Che potere ha il caso?
Non lo so, fotografammo il cartello come fosse stata una pietra miliare, un totem o … tutto quello che mi può passare ora nella mente sarebbe perfetto per descrivere ciò che rappresentava quel cartello arrugginito in quel momento preciso del viaggio. Continuammo per la stradina che, curvando in salita, strisciava gradualmente sulla schiena della montagna fino a morire sul bordo di un precipizio.
La Waterfall più grossa ci si presentò dinanzi quasi per caso, mentre eravamo alla ricerca di un buon look-out che ci permettesse di ammirare la pianura verde sottostante nel magnifico splendore alla fine del temporale. Arrivammo fino in cima al monte, quindi, nei meandri della foresta, per trovarci di fronte ad un rubinetto naturale di trecentodieci metri di caduta in una gola di rocce nude e scivolose. [] L’Australia è talmente grande e disabitata che in ogni luogo ci si trovi, si è sempre e comunque più soli rispetto a qualsiasi altro posto nel mondo e anche lì, sebbene la cascata fosse rinomata ai più, eravamo sempre e solo noi. Mezz’ora di cammino fra tronchi secolari, ricurvi su loro stessi, liane e rocce spigolose ci condusse dritto dritto alla piscina scavata dalla potenza dell’acqua in una patina di coriandoli di arcobaleno prodotti dalla rifrazione delle gocce con la luce del giorno.[]
Non ricordo dove mangiammo dopo, se o cosa mangiammo, non ricordo bene; ad ogni modo ci fermammo nel primo tourist office che incontrammo sulla strada per fare una birra e collect some gifts (free of charge as usual… for us). Giovi uscì dal negozio con due o tre libri sulla fauna e la flora dei tropici australiani, Mario con qualche libro a proposito della barriera corallina, io colleziono spillette e mi interessavo anche al look storico-culturale della vettura che, col tempo, si riempiva di gadgets più o meno scemi che le venivano appiccicati sulla carrozzeria a testimonianza tangibile dell’avventura che lei stessa stava vivendo. C’era di tutto su quei finestrini: da Muhammed Ali ai figurini delle varie città che avevamo visitato, a Freddy Krueger. Non c’è senso in niente in questo mondo, perché allora doveva esserci sulla nostra auto? Ah si, c’era anche l’indemoniata dell’Esorcista e Dracula e qualche giorno dopo eravamo già a Cairns.

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